Le spericolate impennate del CIAO

di Pasquale Terracciano

«Il sapere non è democratico, è meritocratico»

Il documento di Renzi, dal poco felice titolo di CIAO, merita di essere letto a fondo per comprendere la difficoltà del dialogo da instaurare con Italia Viva. Sono andato a leggere il tema che mi interessa più da vicino, “Università e la ricerca” (punto 42), per capire l’oggetto del contendere, la misura delle distanze all’interno della maggioranza.
Il documento recita: “Occorre decidere quale sia il livello della nostra ambizione su questo punto. Vogliamo togliere l’Università dal diritto amministrativo? Vogliamo far scegliere il rettore al CdA e non farlo eleggere (il sapere non è democratico, ma meritocratico)? Vogliamo cambiare governance — reclutamento — valutazione? Vogliamo abolire il valore legale del titolo di studio? Vogliamo limitarci a modificare le classi di laurea? Vogliamo un contratto nazionale del ricercatore che dia certezza di finanziamento a chi fa ricerca in Italia? Dove vogliamo il numero chiuso? Noi chiediamo una discussione pubblica, serrata, seria su questi temi. Perché questo è il settore su cui ci giochiamo il futuro: il capitale umano. Le pagine che abbiamo letto sono tutte pagine che non creano divisioni o dissensi: ma serve una svolta, non un generico atto di indirizzo, se vogliamo davvero rilanciare l’università italiana”.
Colpisce innanzitutto il tono. Avevo capito che CIAO, al di là del titolo, si presentasse come una proposta costruttiva e puntuale, trovo invece una serie di domande passivo-aggressive che saltano di palo in frasca. Alcune condivisibili, altre meno, altre spiazzanti (e rivelatorie).
Ad esempio quel bislacco inciso, a proposito della governance universitaria: “Il sapere non è democratico, è meritocratico”, già segnalato dal pedagogista Cristiano Corsini. Blairismo, con una spruzzata di Burioni, si direbbe, a grattare sotto la superficie dello slogan. La prima parte richiama infatti il mantra del noto immunologo: “La scienza non è democratica”, che ha un suo incontestabile senso (anche se si potrebbe notare che il “sapere” è insieme più vasto della scienza). Quando si dice che il sapere non è democratico, si intende che non tutti possono parlare di argomenti specialistici con eguale pretesa. Dunque il sapere non è democratico, da questo punto di vista, non tanto perché meritocratico, quanto perché necessariamente gerarchico in base alla conoscenza raggiunta. Cosa c’entri con l’elezione dei rettori è oscuro: non è in contraddizione con il fatto che la governance di una comunità accademica qual è l’Università venga scelta dai membri di quella comunità. Dire il calcio non è democratico, ma meritocratico, vuol dire che io non arriverò mai a giocare in Seria A, mica che i giocatori non hanno il diritto di eleggere democraticamente i loro rappresentanti.
Rivelatorio è il secondo corno della frase, con l’onnipresente richiamo alla meritocrazia, parola coniata, come noto, negli anni ’50 con accezione negativa. Il sociologo laburista Michael Young la usò infatti per descrivere una società distopica fortemente gerarchizzata, rovesciata nel 2034 dalla vittoria dei populisti (curioso, no?). Quello che qui conta è che il sapere non è in sé meritocratico: al più lo sono l’accesso al sapere o il riconoscimento dei titoli accademici. Nell’improprio uso dell’aggettivo meritocratico entra, e non da oggi, la fascinazione per Blair, che insistette sulla meritocracy come chiave per rafforzare il capitale umano (che infatti è menzionato subito dopo) e per promuovere la mobilità sociale. Il sapere doveva essere meritocratico, cioè accessibile a tutti i talentuosi indipendentemente dall’origine sociale: onorevolissima aspirazione, ma in questo senso il sapere è meritocratico proprio in quanto democratico, tutto il contrario di quanto sostenuto nel documento. C’è però anche una seconda aspirazione blairian-renziana che si è rivelata nel tempo più chiaroscurale nei risultati: il fatto che, nella società della conoscenza, la meritocrazia è fortemente education-based, cioè fondata su un percorso di istruzione che, attraverso i titoli conferiti, segnala le persone migliori per i lavori più profittevoli. Non è insomma il sapere a essere meritocratico, quanto la meritocrazia a basarsi sul riconoscimento del sapere.
Ci si muove qui su un terreno estremamente scivoloso, nella quale lo slogan renziano — e quanto emerge della sua idea di università — si dimostra legato a un paradigma un po’ ammuffito e forse un tantino provinciale, se vogliamo stare all’invocata “discussione pubblica e seria” dei temi proposti. Negli ultimi anni, sulle due sponde dell’Atlantico, si sono susseguiti articoli e libri, in sedi prestigiose e da diverse prospettive ideologiche, che denunciano i rischi insiti in siffatto sistema meritocratico. Perché si è dimostrato incapace di produrre mobilità sociale, e invece ha legittimato le diseguaglianze, incentivando inoltre una retorica tossica dei vincenti contro i perdenti che ha indebolito lo spirito civico delle nostre comunità, creando così terreno fertile per il populismo. Vi sono, inoltre, altre conseguenze negative, tra cui una è particolarmente evidente. Se per avere successo bisogna frequentare le università più rinomate, si crea inevitabilmente una costosa competizione sui percorsi extrascolastici che vi garantiscano l’accesso. Si arriva così al fatto che la metà degli studenti delle Università dell’Ivy League proviene dall’1% più ricco del paese: detto altrimenti, c’è bisogno di setacciare i figli del 99% della popolazione per trovare lo stesso numero di “eccellenti” che si trovano tra gli eredi dell’1%. Possibile? Anche in Italia il Direttore della Normale, Luigi Ambrosio, ha recentemente denunciato la sempre maggiore connotazione sociale delle scuole d’eccellenza. Ma questo significa che, sempre più spesso, si rivela meritevole solo chi ha già una condizione vantaggiosa di partenza.
Senza correttivi democratici, la meritocrazia si traduce insomma in un meccanismo classista. Con l’aggravante di convincere i vincenti di aver integralmente meritato la loro posizione sociale, avallando la totale assenza di solidarietà verso gli altri. Così argomenta uno dei maggiori filosofi americani, Michael J. Sandel, nel recentissimo The Tiranny of Merit. Avesse letto il documento di Renzi, Sandel ritroverebbe punto per punto i principi da lui denunciati come erronei. Per sua fortuna, è difficile che le riflessioni di Italiaviva arrivino sul suo tavolo. L’appello irriflesso alla meritocrazia, anche se accompagnato da buone intenzioni, produce danni profondi: crea tracotanza in alcuni, e risentimento nei molti. Se i modelli educativi di una società hanno come unica bussola il merito si fanno più pericolosi che utili. È allora che si crea un dissidio valoriale tra meritocrazia e democrazia, con la prima che promuove esclusivamente competizione e gerarchia, e avversa cooperazione e comunità (fondamentali per la democrazia, e non inutili per il sapere). Da qualsiasi punto lo si guardi, dire che il sapere non è democratico, ma meritocratico, come vuole CIAO, non è insomma una conquista, anzi: è l’assist migliore che si può fare al populismo.

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