Il Castello di Itri, Una storia d’armi e d’amor.

di Teobaldo Fortunato

Un intreccio di gentiluomini e d’armi e d’amori, avvolto nelle maglie e tra possenti mura, segna la storia travagliata e triste d’un turrito castello, lungo l’Appia antica. Siamo giunti ad Itri, in una profonda gola dei monti Aurunci, lasciata la strada costiera a Formia, in un piovoso, gelido, oserei dire tetro mattino di fine dicembre. Entriamo da Porta Mamurra, la più imponente della cittadella medievale: ai due lati dell’arco, la raffigurazione sinistra, scolpita nella pietra, d’un mostro anguiforme a testa canina, in posizione araldica e più in basso, la terribile epigrafe latina che recita: Siamo i custodi severi e voracissimi della nostra Itri. Proseguiamo nonostante tutto, pioggia compresa, nel nostro intento di raggiungere la rocca, sulla sommità, inerpicandoci tra i tortuosi vicoli costellati di case pittoresche ed austeri conventi, attraverso le strette e tortuose vie rievocate da Hans Christian Andersen nel celeberrimo diario del viaggio in Italia, compiuto agli inizi degli anni ’30 del XIX secolo, confluito successivamente nel suo romanzo d’esordio: “L’Improvvisatore”. Finalmente, dopo via sant’Angelo eccoci all’ingresso del Mastio. Un sapiente restauro, durato oltre un decennio ed in alcune parti non ancora concluso, ha ridato una nuova dignità all’edificio intero.  Sono stati ricostruiti ambienti e realizzate   coperture, utilizzando gli stessi materiali, la pietra calcarea, la malta magra d’uno stento beige ed il pallido ocra nei piani pavimentali. Anche le strutture metalliche utilizzate per ricostruire, in maniera filologica, percorsi possibili e polifunzionali non sono mai invasive.  Conservano un netto distacco dalla struttura originaria e si integrano armonicamente con i muri perimetrali, caratterizzati dalle tante aperture e dai caratteristici merli a piombo. I nuovi ambienti nei più piani, hanno riacquistato in tal modo, un grande respiro. Ospitano interessanti eventi culturali e mostre d’arte contemporanea: la rassegna di musica, danza e teatro, Itri Arte che si tiene ogni anno durante le prime tre settimane d’agosto, i prestigiosi premi Fra’ Diavolo e I Briganti della TV.  Al piano che potremmo definire nobile, nelle sale ampie e spartane si celebrano e si suggellano sobrie nozze civili. Nel piano sotterraneo, un tempo erano le cucine: resta ancora un forno antico. Ma, si conservano ancora in ottimo stato, le cisterne per la raccolta dell’acqua piovana. Nella torre quadrata a sinistra, caratterizzata da innumerevoli scale di escheriana memoria, due manichini provenienti da un teatro di posa napoletano, mutili ed inquietanti ammiccano, poggiati l’uno su un’alta finestra e l’altro seduto al bivio, alla fine d’una ripidissima rampa di scale che immette al loggiato superiore. Qui si raccordano le due torri, quella poligonale che si eleva nella parte più alta della collina e la sinistra che dà accesso oggi nei saloni d’ingresso e permette di portarsi al piano superiore. È questa la parte più interessante del complesso finora restituito alla pubblica fruizione ed alle visite guidate. La prima sala, in origine forse abbastanza angusta, conserva l’impronta e la traccia di un grande camino; non ne è chiara tuttora la funzione primaria; dopo un ampio varco, sottolineato da un arco ribassato, oggi aperto, vi è l’originaria cappella palatina. Rimangono, uniche presenze cromatiche, nel biancore spettrale del maniero, i lacerti di vetusti affreschi: l’imago di una bellissima Madonna con Bambino, forse tardo giottesca e due Santi stanti ai due lati.  Dalle cadute dello strato pittorico si evince che le immagini obliterano un ulteriore dipinto, più remoto forse non irrimediabilmente perduto. Nella fascia che funge da cornice sottostante, resistono ancora, vergate di nero su fondo bianco, lettere gotiche sovra dipinte, ora lacunose e   mutile.  Procedendo oltre ed a addentrandoci verso la torre poligonale, due asimmetriche porte minute introducono nell’ultima sala, forse utilizzata in origine quale talamo o alcova, almeno così ci piace immaginare, pensando alla storia che tra poco vi narreremo.  Da qui si gode della visione interna grazie ad una balaustra moderna, di tutta la   magica torre: un susseguirsi stavolta, di piccole grandi finestre e strombature da cui entra violenta, nei giorni tersi di primavera ed in quelli luminosi ed accecanti d’estate, la luce con la prepotenza del sole d’agosto ed urta e riverbera contro le nude pareti.  La sensazione è vertiginosa, ora che i piani primitivi non scandiscono più l’altissima torre, aperta com’è per intero, sventrata dal tempo e dalle offese di secoli e d’uomini. Nell’ordito dei muri perimetrali si leggono ancora accenni di centine e d’attacchi di volte. La maestria dei progettisti del nostro tempo ha conferito quella chiave interpretativa e prospettica di stampo barocco che forse non ha mai caratterizzato né connotato in precedenza la torre. Poco importa, l’impatto visivo è altamente evocativo e di estrema suggestione per   chi vi entra: è tutto lì, nel rimando di pieni e di vuoti che annulla la dimensione del basso e dell’alto, in altre parole, la gravità. Sporgendosi dall’alto o alzando gli occhi da terra si perde per un momento breve, quanto il rapido sguardo, la cognizione del locus conclusus. È questa la caratteristica principe dei grandi monumenti degli uomini.  Comunque sia, il piccolo mastio di Itri, uno degli innumerevoli, lungo la grande arteria viaria che collegava Roma al resto del Meridione d’Italia, conserva in pieno il fascino delle costruzioni medievali di cui è pervasa la civilissima Europa. Il primo nucleo, costituito dalla torre e la cinta merlata intorno, fu edificato verso la fine del IX secolo; appartenne fino al 1073 al Ducato di Gaeta, passò intorno al 1140, ai Dell’Aquila, signori di Fondi. Fu terminato verosimilmente verso il 1250. All’esterno, rimane la piccola corte, raccolta e posta in posizione più degradante rispetto a tutto il complesso, sul versante opposto il camminamento di ronda dotato di merlatura di tipo ghibellino, conduce ad un’ulteriore torre circolare. E’ dal camminamento che si gode del colpo d’occhio su tutto il paese che ha dato i natali, secondo il cronachista Teodorico di Niem, a papa Urbano VI, al secolo Bartolomeo Frignano, assediato nel 1385, in un altro castello, quello di Nocera, dalle truppe di  Carlo III di Durazzo, ma anche  a Michele Pezza meglio noto come  Fra’  Diavolo, il bandito che alla fine del XVIII secolo, arruolatosi nelle fila delle truppe Borboniche, compì eroiche gesta immortalato anche dall’opera musicale omonima di F. Auber. E la storia d’amore, all’ombra del grande maniero? Bisogna ritornare indietro alla metà del Cinquecento, allorquando viveva a castello l’avvenente contessa Giulia Gonzaga, giovane sposa e poi vedova infelice di Vespasiano Colonna, immortalata da Tiziano Vecellio. Di lei si innamorò perdutamente il cardinale Ippolito de’ Medici, folgorato dalla bellezza, durante il suo soggiorno, nel 1534, presso la corte dei Colonna, durante feste e tornei e battute di caccia.  Un amore non corrisposto fino a quando, il cardinale fu vittima di un avvelenamento e la sventurata Donna Giulia gli restò accanto. Un cronista del loro tempo, Paolo Giovio, raccontò che “gli fu men dura la morte per esser vicino a Donna Giulia, la quale gli usò virtuose cortesie”. Quattro mesi dopo la morte del Cardinale Ippolito, anche Giulia lasciò le vane cose terrene e si rinchiuse nel convento di San Francesco delle Monache a Napoli, dove terminò i suoi giorni. Storie di ieri e di un mondo perduto. Ludovico Ariosto lo ha eternato per sempre nell’Orlando Furioso dedicando un’ottava alla sventurata contessa Gonzaga.  

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